Lo yoga con otto rami
dell’insegnante di yoga Dan Bozaru
In questo articolo ci proponiamo di fare un’analisi comparata del sistema del raja yoga, lo yoga con otto rami (ashtanga), tra la visione classica e quella dello Śivaismo kashmiro.
Secondo l’approccio classico di Patanjali al sistema yoga nella sua opera fondamentale, gli “Yoga Sutra”, lo yoga è definito principalmente dalla “completa cessazione di tutte le fluttuazioni mentali” (citta vritti nirodha). Come è noto, lo scopo di questo completo silenzio della mente (che significa anche totale e perfetto controllo delle funzioni mentali) è realizzare la natura immutabile del Purusha (che rappresenta l’individualità essenziale dell’essere umano) separandola dalla natura “materiale” di Prakriti, anche se il significato della parola yoga è “unire”, “mettere insieme”.
In questo caso, lo yoga è una combinazione di unione e separazione. Il significato profondo di questa combinazione risiede, da un lato, nella rimozione degli impulsi o desideri latenti (vasana) dalla mente subconscia (impressioni che si riferiscono alla percezione differenziata (vikalpa) che sorge a causa di vari tipi di impurità (mala) o limitazioni che “contraggono” la coscienza universale del Sé Essenziale), e dall’altro la realizzazione di questo obiettivo si ottiene unendo tutti gli elementi che compongono l’esperienza individuale nel mondo manifesto in un intero indivisibile della Coscienza Universale.
Nel tentativo di stabilire il modo più efficace di praticare lo yoga per l’aspirante alla perfezione suprema, il grande saggio e liberato Kśemaraja prende come riferimento i due principali testi tantrici dell’antichità, che considera di grande importanza: il Netra-tantra (la Visione Integrativa attraverso il Terzo Occhio di Shiva) e lo Svacchanda-bhairava-tantra (La condizione di suprema liberazione e perfezione di Bhairava). Il modello di base a cui fa riferimento è lo yoga degli otto rami (ashtanga yoga) dell’approccio classico di Patanjali, che notoriamente comprende le seguenti fasi:
1. le cinque regole dell’ordine morale (yama), che sono: ahimsa (non violenza), satya (dire la verità), asteya (non furto), brahmacharya (astinenza o continenza amorosa) e aparigraha (non possessività);
2. le cinque regole etiche (niyama), che sono: saucha (purificazione della struttura fisica e soprattutto mentale ed emotiva), santosha (contentezza), tapas (austerità), svadhiyaya (studio di sé) e ishvara pranidhana (adorazione ininterrotta e abbandono a Dio);
3. le posture fisiche del corpo (asana), che devono essere praticate in modo tale da condurre lo yogi a un approccio efficace alla pratica della meditazione e, allo stesso tempo, dargli una salute perfetta;
4. il pieno controllo dei respiri sottili attraverso il ritmo del respiro (pranayama);
5. il “ritiro” dei sensi dalla percezione degli oggetti circostanti (pratyahara);
6. concentrare l’attenzione su un unico punto, o in altre parole su un unico oggetto di meditazione, definito con il termine concentrazione (dharana);
7. la meditazione (dhyana), che è la fase in cui la concentrazione diventa stabile e ininterrotta;
8. il samadhi (contemplazione o estasi divina).
Nel suo approccio sfumato a questi otto stadi del processo del divenire spirituale (yoga), Kśemaraja ritiene che il sistema classico proposto da Patanjali presenti comunque alcune limitazioni concettuali, perché anche se (il sistema classico) porta certamente all’acquisizione di condizioni (o stadi) superiori di liberazione spirituale, non conduce necessariamente allo stato ultimo e perfetto della deificazione, attraverso la piena identificazione con la trascendenza, la cui condizione suprema è affermata così nel Netratantra:
“La parola non può esprimere con la parola viva, né gli occhi vedono, né le orecchie sentono, né il naso odora, né la lingua gusta, né la pelle sente, né la mente concepisce ciò che (per sua stessa natura) è eterno.
Libera da ogni forma, colore e sapore, ma dotata di tutte le forme, i colori e i sapori esistenti o concepibili, (la trascendenza divina) si trova ben al di là di ogni sensazione percepita (fisica o sottile) dai sensi e quindi non può mai essere percepita oggettivamente.
O Dea Suprema, gli yogi che si identificano pienamente con la Sua inesprimibile realtà diventano immortali! Attraverso la pratica assidua e suprema del distacco si può raggiungere l’identificazione plenaria con questa realtà suprema, che è imperitura, eterna, immutabile”.
D’altra parte, Kśemaraja sa che il sistema classico di yoga di Patanjali faceva una chiara distinzione tra i poteri paranormali (siddhi) che vengono raggiunti dallo yogi e la suprema realizzazione spirituale, che questi poteri nascondono finché il praticante dello yoga non si distacca completamente dalle tentazioni egoiche della loro influenza illusoria. In questo senso, nel suo commento al famoso trattato tantrico “Śiva Sutra” intitolato “Śiva Sutra Vimarshini“, Kśemaraja cita dagli “Yoga Sutra” di Patanjali (sutra 37, cap. 3): “Gli ostacoli che sorgono durante la contemplazione (o l’estasi divina, samadhi) sono le perfezioni (o i poteri paranormali, siddhi) che lo yogi acquisisce (come risultato della sua pratica intensa e perseverante)”.
Il grande saggio e liberato mette in relazione questa citazione con i profondi aspetti metafisici, che in realtà ci mostrano la causa e la natura stessa di questi ostacoli (che sono i poteri paranormali, quando si impadroniscono dell’attenzione egoica dello yogi, legandolo sempre più al piano della dualità). Così, Kśemaraja mostra che l’espansione della coscienza (che, in questo caso, si manifesta attraverso i vari poteri paranormali, siddhi, che vengono acquisiti dallo yogi) provoca l’emergere e la manifestazione oggettiva del “punto di focalizzazione energetica senza dimensioni” (bindu), che viene assimilato ai diversi tipi di visione della luce, del suono sottile (o risonanza universale) (nada) che rappresenta il suono nel mondo oggettivo, della forma (rupa), che si individualizza dal suo livello causale a quello della forma oggettiva delle cose, e del gusto (rasa), che dal suo “sapore” causale arriva a manifestarsi alla percezione fisica del gusto grossolano.
Questi vasti “altipiani energetici” rappresentano il campo di manifestazione di vari poteri paranormali specifici, che possono “prendere il sopravvento” e sottomettere il potere di discriminazione e di decisione dello yogi, tentandolo verso il mondo degli aspetti illusori.
Uno dei processi preliminari e imperativi nella pratica del sistema tantra yoga si riferisce alla cosiddetta “purificazione” degli elementi (bhuta shuddi), attraverso la quale il microcosmo dell’essere umano (che coinvolge sia la sua struttura fisica (corpo) sia i suoi corpi sottili) viene tacitamente “omologato” con l’intero macrocosmo (la Creazione divina nel suo complesso), diventando così un “veicolo” puro e pronto per la manifestazione pienamente consapevole della Realtà Suprema, che è il Sé eterno (ātman). Kśemaraja identifica questo processo di purificazione degli elementi con la meditazione profonda, con la quale, in generale, lo yogi visualizza la graduale dissoluzione dei successivi principi di manifestazione nel proprio essere (microcosmo) fino a raggiungere, da vicino a vicino e da un livello energetico all’altro, la beatifica unione di tutte queste energie formative nello spazio supremo della trascendenza divina (Sahashrara).
La pratica della meditazione, attraverso la quale si ottiene la purificazione degli elementi, può essere eseguita in due modi. La prima si riferisce alla “Contemplazione della dissoluzione degli elementi” (layabhavana), in cui si inverte il processo di progressiva differenziazione della coscienza suprema di Shiva dalla sua condizione causale (e in un certo senso “pre-cosmica”) a quella della sua manifestazione fenomenica (duale). In altre parole, questo processo si riferisce alla progressione inversa dell’atto di creazione, partendo dai suoi aspetti più grossolani (del mondo fisico), passando poi per gli aspetti del mondo sottile (del mondo astrale e mentale) fino agli aspetti più elevati (del mondo causale), e infine la mente stessa che trascende e si dissolve nell’ineffabile Realtà Suprema che si trova al di là di tutte queste manifestazioni.
La misteriosa analogia e la corrispondenza ultima tra il macrocosmo e il microcosmo dell’essere umano è “mediata” dalla coscienza suprema di Śiva, che quindi manifesta successivamente i singoli attributi essenziali per sostenere questa vera e propria omologazione che coinvolge: il soggetto individuale (jivatman), i respiri vitali, la mente, la struttura dei canali di energia sottile (nadi), i sensi e il corpo fisico. Nella sua meditazione, lo yogi riproduce questo processo molto complesso visualizzando la totalità della realtà che lo definisce e che comprende i vari mondi manifesti, i principi metafisici e le varie energie e forze cosmiche a cui sono associati i mantra e i fenomeni essenziali che appaiono e si manifestano successivamente come parti costitutive della struttura psico-fisica dell’uomo.
Questa esposizione separata degli elementi o “mattoni fondamentali” (tattva) della Creazione di Dio Padre costituisce in pratica il Sentiero Cosmico lungo il quale lo yogi sale pieno di aspirazione, dissolvendo successivamente gli elementi inferiori in quelli superiori e ottenendo così l’approfondimento e allo stesso tempo l’espansione della sua coscienza unificata in termini di “configurazione” e significato del Sentiero che segue.
Si passa così dagli elementi grossolani che costituiscono il corpo fisico alle pure essenze energetiche dei sensi (tanmatra), poi ai sensi della cognizione e dell’azione e infine alla struttura dell’apparato cognitivo interno (antahkarana, che comprende manas (la mente inferiore), ahamkara (l’ego) e buddhi (l’intelletto)): lo yogi dissolve tutte queste manifestazioni energetiche nella loro fonte primordiale, passando gradualmente dalla coscienza soggettiva dello stato di veglia alla condizione di contemplazione e di estasi divina (samadhi), propria del “quarto stato” (turiya), in cui diventa un tutt’uno con l’idea causale della coscienza di Śiva della visione comune di tutta la Creazione.